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L’oasi nel deserto di cemento e acciaio/ Habibi, Coventry

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La sala al piano terra

A vivere fra la desolazione e lo squallore architettonico di uno dei centri città più brutti d’Europa (o del mondo, come già ventilato altrove), finisce poi che ci si arrenda sconfitti all’horror vacui e irredimibile vanità di ogni cosa, mentre le memorie di tavole imbandite e baccanali, vino, prosciutti, caci, sembrano allontanarsi indefinitamente come un inverosimile miraggio. Ma, sorpresa, Coventry, terra di esilio gastronomico, ha la sua oasi mangereccia.

Stiamo parlando di Habibi, una gloriosa taverna di cucina palestinese che apre le sue porte appena oltre Gosford Street e il cupo blocco urbanistico di questa zona della città, con le sue sale Bingo, i profili di palazzi di una bruttezza annichilente, gli snodi stranianti della Ring Road sopraelevata che strozza come un cappio il nucleo urbano, i pub-chains tutti uguali, i night club per anziani ubriaconi, e la manciata degli altri discutibili localacci della ‘movida’ universitaria, ad uso e consumo degli studenti undergraduates della vicina Coventry University.

Habibi, invece, è un luogo di civiltà. Si presenta come un accogliente salone con pochi tavoli e sedie e panche puntellate di drappeggi e cuscini arabeggianti dagli iridescenti colori. E poi specchi, tendaggi, lustrini che catapultano l’affamato avventore nella kasba di un’assolata città d’Oriente. In fondo alla sala si trova il bancone e, dietro a una tenda, la cucina, dalla quale si affaccia una signora dai tratti somatici inequivocabilmente mediorientali, che poi subito torna ad affaccendarsi fra terrecotte e pentoloni. Al piano superiore, ancora tavoli e divani in stile sala da tè araba e, sul retro, un’ampia e luccicante veranda che invita ad assaporare le serate più miti dell’estate inglese, sicuramente più assolata di quella del 2014 italiano.

Noi ci accomodiamo su uno dei divani del piano superiore e cominciamo a sfogliare il voluminoso menu con la sua ricca scelta di combinazioni adatte a tutti i palati, vegetariani e vegani compresi (vedi sito web). Gettonatissimo è il menu Starters, che comprende una selezione di antipasti palestinesi caldi e freddi, seguiti da dolcetti arabi e tè speziato. Noi propendiamo per quello, ma c’è poi un qui pro quo. La cameriera, dopo aver fatto confusione sulla nostra comanda, oltre agli antipasti ci serve un main course più ricco e abbondante, e costoso. Il piccolo incidente, gestito invero con grande professionalità e cortesia dalla proprietaria, non altera minimamente l’ottimo giudizio su Habibi e anzi ci permette di assaggiare un agnello molto saporito e delicato. Chiudiamo, come di dovere, con una selezione di dolcetti e tè. Su saggio consiglio della cameriera, proviamo un tè alla salvia, dalle decantate proprietà depurative.

Le delizie di Habibi sapranno compensare chiunque abbia sufficiente pelo sullo stomaco per uscire ad affrontare l’agghiacciante Coventry by night, e spingersi in una defilata area di Gosford Street, nel suo microcosmo periferico che d’incanto si fa fitto di attività commerciali multietniche: barbieri africani, rosticcerie mediorientali, uomini e donne di ogni nazione a incarnare il progetto di un mondo cosmopolita.

Tantoebè non può che ringraziare con l’animo pieno di entusiasmo questo locale che ha deciso di resistere e di lottare, anche nella devastazione gastronomica di Coventry. E al di là del mondo dei sapori e del cibo che tanto amiamo e cerchiamo di celebrare in questo blog, ad Habibi va la nostra solidarietà umana, nei giorni del folle bombardamento di Gaza che ci toglie le parole. Quando noi invece sogniamo un mondo dove tutti i popoli possano mangiare seduti assieme allo stesso tavolo.

Welcome nel pub dell’orrore. L’immondo ibrido alberga a Coventry / The New Haven

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L'esterno del New HavenL’immondo ibrido abita a Coventry. Andatelo a scovare, se ne avete il coraggio. Il suo domicilio è il, in Dilotford Avenue. Un pub, sperduto fra le brume di una delle città più brutte d’Europa, se non del mondo, che nasconde fra le sue quattro mura di mattoncini marroni un raccapricciante esperimento gastronomico.

Il locale incarna bene molti degli stilemi del genere horror. Perché dagli specchi opachi appesi alle pareti e da ogni scacco della moquette lisa e polverosa, trasuda quell’indefinibile senso di perturbante (unheimlich) su cui i padri della psicanalisi si sono fermati con profonda serietà a riflettere. Trovare il New Haven è quasi impossibile, e persino più difficile è imboccare la via di casa una volta usciti da lì dentro. Appena fuori, si viene inghiottiti da un nulla fatto di casette modulari tutte identiche e così immobili e spente da sembrare disabitate. E poi labirinti di giardinetti arcani, figure incappucciate che vi urtano lungo i marciapiedi.

Dentro al New Haven il tempo sembra essersi curvato verso qualche dimensione parallela e sospesa. È come se nel pub non ci sia mai nessuno. Al massimo, ad affiancarvi nella vostra solitudine, scorgerete l’impalpabile figura della barista, che sembra assente, quasi rapita da visioni ectoplasmatiche. Raramente incontrerete qualche altro avventore, devastato dalla confidenza con l’alcol. Ma la cosa che più ci ha colpito, al New Haven, è proprio l’immondo ibrido che vive nelle sue cucine.

Era sabato sera e avevamo fame, tanto per cambiare. Ci siamo rivolti alla barista per ordinare qualcosa da sbocconcellare insieme alla birra; lei ci ha risposto porgendoci il menu di un ristorante cinese. Increduli, abbiamo esaminato la lista sconfinata di cibarie. Poi ci siamo voltati e abbiamo premuto il campanello sullo stipite di una porta. Subito si è aperto un varco che ai nostri occhi fino a quel momento era sembrato invisibile. Oltre la soglia, il profilo di una cucina fitta di inspiegabili alambicchi per un istante ci ha abbagliato e confuso. E poi si è manifestato il cuoco, un cinese coi baffi che ci ha fissato con la fronte imperlata di sudore. Siamo riusciti seppur storditi ad ordinare il nostro pasto, noodles, pollo fritto e altri tipici manicaretti orientali. Lo abbiamo ritirato e poi consumato su un tavolino del pub, assieme alla nostra pinta di Carling che invece ci eravamo appena fatti spillare da dietro il britannicissmo bancone. Il cibo sgocciolava dalla mani. La qualità era quella della mangiatoia postindustriale. Ma con la fame, quella nera, non si scherza, e noi abbiamo consumato tutto fino all’ultimo boccone, con la testa china sul piatto. Nel mentre, un gruppetto di ragazze pingui e sfatte rideva sguaiatamente oltre la vetrata del giardinetto esterno.

C’erano forse tutti gli stilemi del locale ruspante, magari un pò vernacolare e folkloristico alla Mari’ de culo bello per intenderci. Ma l’atmosfera dell’Haven era ben più straniante e indefinibile, come se fra le sue pareti il moderno avesse subito un’improvvisa accelerazione, fino agli esiti più mostruosi. Inutile cercare conforto guardando il cielo: fuori dalla finestra, soltanto la skyline dominata dai blocchi di cemento armato versato a piene mani nell’ansia della ricostruzione post-bellica.